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Dorothy Circus Gallery – 3 The Doors of Perception, Good is Her Deejay

‘Le donne sono tutte diverse.

Fondamentalmente sono una combinazione di quanto c’è di peggio e di quanto c’è di meglio al mondo, magiche e terribili.’

Charles Bukowski, Donne, 1978

“Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò’

Genesi,  3, 6

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L’arte è femmina.
E come le femmine, corrompe.
Chiama, seduce e poi smuove il mondo da dentro.
Corrompe dal profondo delle nostre certezze venendocele a prendere in posti oscuri.

E basta uno sguardo.
Per cambiarci dentro.

L’arte è femmina perché è come la parte più istintiva delle donne.
E perché come le donne non ha l’ambizione di cambiare il mondo.

Non riassume la propria esistenza nelle risposte ma lascia sospesi sull’orlo di nuove domande.
Per questo gli uomini non capiscono le donne ma gli artisti sanno raccontarle così bene.

Perché dipingono i loro occhi dello stesso indefinito significato che rende l’arte oscura e magica insieme.

E’ come un rumore sordo che cambia eco in ognuno di noi.

Guardate la malinconia conservata, accesa, vissuta negli occhi delle donne di Afarin Sajedi.

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Mettete i vostri occhi di fronte ai loro come i palmi delle mani, li sentirete spaccarsi delle lacrime di una malinconia lontana.

E’ un’arte potente la sua, come il dolore delle donne, capace di muovere eserciti e distogliere destini.

Commuove di un’emozione che arriva dai limiti del corpo, senza lasciare scampo.

E non importa quanto la sporchi di storture e ferite, lo sguardo torna sempre sui pezzi d’anima sbriciolati nelle iridi acquose, fatte di cristallo e sofferenza.

E’ qui che la pittura fatta di essenziali complessità dell’artista iraniana incontra e si fonde con le sculture amorfe di Francesca Romana Di Nunzio.

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Belle di un’inquietudine tangibile che corrode lo sguardo.
E’ la contraddizione dell’arte, fare male di un’estasi dolorosa.

Anche in questo è uguale alle donne, che attraverso il dolore perpetuano di vita.
E forse è per questo che nei loro occhi, di vita, ne scorre molta di più.

Come nelle opere di Sas e Colin Christian.

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Eroine a metà tra seduzione antica e glitterato eroismo contemporaneo.

Hanno visi disegnati intorno a occhi che ti guardano e ti assorbono, ti divertono e non ti lasciano andare, ti inchiodano a eccessi e paure.

Ti scelgono.

E sono così veri e spudorati a dispetto di un tratto irreale e ingenuo.

Incontrare le opere di questi quattro artisti alla Dorothy Circus Gallery, in occasione della mostra ‘God is her Deejay’,  è stato come seguire le briciole dell’esistenza seminate nell’essenza delle donne raccontate in ciascuna opera.

Anche l’arte fa così, ritaglia un pezzo di tela e dentro ci versa un mondo.
Oppure addirittura lascia che quel mondo ti venga incontro da una parete.
Come si affacciasse da universi nascosti, sta lì a guardare te e non viceversa.

Per questo corrompe e inquieta.

Usa la bellezza per sgretolare muri di certezze e aprirti possibilità che non credevi esistessero.

Non promette verità.

Ti provoca, seduce, attira, corrompe.
E’ come Eva che invita Adamo a provare la mela.
Non c’è obbligo o costrizione, l’arte fa delle domande, non regala risposte.
Sconvolge il nostro mondo e poi aspetta che siamo a rimetterne insieme i pezzi.

“Comprendevo la sua bellezza, ma, nello stesso tempo, mi sentivo molto oppresso…
Provo sempre un senso di pena e di inquietudine, quando contemplo per la prima volta un simile quadro della natura: ne sento la bellezza ma mi riempie di angoscia” 

“Mi piace guardare quel quadro! Quel quadro! Esclamò ad un tratto il principe,
come colpito da un pensiero subitaneo, quel quadro!
Ma tu sai che, osservandolo a lungo, si può anche perdere la fede?”

da ‘L’Idiota’, 1869

E’ in questo romanzo che Fedor Dostoevski ha scritto che il mondo sarà salvato dalla bellezza.

Magari tutto il mondo no, forse solo le anime corruttibili dalla meraviglia.

Dall’arte.

O dalle donne.
O da entrambe.

(Dorothy Circus Gallery – 3 The Doors of Perception, a cura di Alexandra Mazzanti, Edizioni Drago, Febbraio 2015)

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Francesco Astiaso Garcia, l’arte alla sua maniera

E’ come un’impronta.

Non siamo noi, è l’arte che sceglie.

In una stanza piena di dipinti, mentre l’occhio cerca, è sempre l’arte che ci guarda e sceglie.

Spalle al muro, apparentemente vuoti di passato, i quadri hanno una consapevolezza storica che a noi sfugge.

Erri De Luca ha scritto che ‘se non si scrive per essere letti dagli antenati, non resta impresso niente sulla carta’.

Anche l’arte è così, in ogni opera, in ogni artista, si confronta con la Storia che l’ha resa ciò che è.
A volte riesci a leggere tutta quella Storia sotto le pieghe di colore, al tocco della tela.
Altre volte, è un pugno nello stomaco quando entri in una sala, e un graffio di pennello sembra riconoscerti.
E ogni artista di talento è un passo, un margine, oltre la linea di quella Storia. Ma anche vivo e pieno di quella Storia.

Se non fosse così, l’arte sarebbe ancora disegni sulla pietra.

Il pugno nel mio stomaco si chiama ‘Soffio’ ed è un dipinto di Francesco Astiaso Garcia, le cui opere sono in esposizione al Complesso Monumentale L’Agostiniana, a Piazza del Popolo, fino al 3 luglio. La mostra, ‘A mi manera’, composta da circa 140 opere, è un viaggio nella storia dell’artista italo spagnolo. Una storia pittorica piena di tutto ciò che compone una vita. Viaggi, persone, momenti. Lasciando sempre in sospeso la domanda, fondamentale per un artista, se sia la vita a creare l’arte o viceversa. Il percorso, seminato in tre diversi momenti pittorici, spazia tra il materico, l’astratto e il figurativo. Ma è quando l’artista romano mischia –letteralmente- gli stili, in particolare l’astratto e il figurativo, che raggiunge l’eccellenza. Con una ricerca del nuovo, del particolare, e una ricercatezza dei materiali e delle tecniche.
E allora basta un po’ di carta regalo tra la tela e il colore a inventare una storia; bastano delle gocce di pittura, casuali, per richiamare un paesaggio Africano o uno schizzo d’olio su un foglio di carta per ‘creare’, dal nulla, un pugno nello stomaco.

Una contemporaneità che rimanda continuamente al classico.

Ognuno dei dipinti ti guarda da dietro quella patina di astratto che è la nostra immaginazione.

Ci lascia liberi di vederci dentro ciò che siamo capaci di creare, una tela fatta di suggestioni. Dipinti pieni di ciò che gli occhi di chi guarda, sono capaci di vedere.

Potente.

Nella sua pazzesca –per un ventinovenne- visione dell’arte, Francesco Astiaso Garcia impressiona per la personalità e lo stile riconoscibili, anche nella diversità dei suoi momenti artistici. Un gusto estetico che macchia anche il suo modo di parlare e forse anche il suo modo di vivere, alla sua maniera. Non sorprende che un carisma così si riconosca in una frase di Giovanni Paolo II, ‘siate quel che dovete essere e metterete fuoco nel mondo’.

Anche la Fede è un’impronta.

Anche la Fede, ci sceglie.

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Dorothy Circus Gallery, un mondo di meraviglia e possibilità

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Gennaio 2012

“Si ritrovò in una stanza lunga, bassa, illuminata da una serie di lampade che pendevano dal soffitto. La stanza era piena di porte, ma erano tutte chiuse a chiave. E dopo averla percorsa in lungo e in largo, tentando di aprire ogni porta, se ne tornò mesta mesta nel mezzo, chiedendosi come avrebbe fatto a uscire da lì.”

Questa è la parte di ‘Alice’s adventures in wonderland’s’ che in assoluto preferisco. Questa è la parte delle possibilità. E’ la parte delle fantasie attese e non ancora disilluse. E’ il sabato del villaggio di carrolliana visione. Quando nulla ci è ancora stato mostrato e possiamo immaginare tutto. I bambini sono così. I bambini non sanno nulla, per questo possono immaginare tutto. Questa è la loro magia. I bambini finiscono la prima volta che pensano che qualcosa possa non esistere.

A meno che, non la dipingano. E allora sono artisti, bambini che non finiscono mai. Semplicemente entrano da adulti nella vita che da bambini immaginavano. Impastano colori memorie forme pensieri follie e ne fanno arte. Non inventano mondi diversi, ci vivono dentro. A noi li raccontano soltanto. Quello che ne facciamo dipende da quanti pezzi di bambino ci sono rimasti attaccati addosso. Quello che ne facciamo dipende da quello che siamo capaci di vedere dietro una porta chiusa.

O, a volte, dietro tante finestre aperte.
E ci sono posti in cui un po’ di queste finestre si affacciano sul nostro mondo come inviti. Entrare nella Dorothy Circus Gallery,  ti fa pensare di aver seguito un Bianconiglio senza essertene accorto. Per queste festività il tempio del Pop Surrealismo nel cuore di Roma, si è animato di dolci (nel vero senso della parola) suggestioni natalizie, regalando caramelle e genialità – perché ogni altro aggettivo che non sia genio accanto al nome di Joe Sorren è un equivoco – , marshmallows e Munny che sembrano fatti di gelatina di fragola e, invece, sono fatti ‘soltanto’ di vetro di Murano  e sono creazioni di Alessio Vidal. La mostra ‘I love candies’, inaugurata lo scorso dicembre e che si chiuderà il 15 gennaio prossimo, raccoglie meraviglie e leccornie capaci di far cariare denti e anima, se questa fosse corruttibile dalla creatività.

Ospiti d’eccezione della serata, le sculture della talentuosa coppia Kathie Olivas e Brandt Peters ma come non includere nella stessa eccezionalità anche la partecipazione di artisti come Ron English o Yosuke Ueno.

E ancora, le delizione bamboline dell’artista francese Clementine De Chabaneix che diresti di zucchero e che sono invece di resina. E poi alberi di Natale fatti di toys d’autore, e certi oggetti unici, scovati chissà dove, insieme a certi talenti, che contraddistinguono l’istinto e lo stile unico di Alexandra Mazzanti. Ogni opera un assaggio di mondi che non conoscevamo e forse neanche potevamo immaginare, perché la nostra è solo fantasia, perché in noi non c’è l’unicità del gesto dopo, quello che la rende arte.

‘Che cerchiamo sempre un punto di contatto con qualcosa di estraneo alla nostra quotidianità e che invece ci portiamo dentro, sempre. Da piccoli lo cercavamo nelle case delle bambole o mentre agitavamo una macchinina in aria, fingendone il suono e credendo che volasse. A volte ci bastava una spada o un tutù per disegnarci un mondo diverso intorno. Semplicemente, noi lo vedevamo. Oggi che abbiamo smesso, oggi che siamo cresciuti e, come Alice, crediamo di non vedere altro che il mazzo di carte, quel mondo continua in realtà ad attirarci. A chiamarci dalle sue finestre di possibilità. Nella white velvet della Galleria, Alexandra Mazzanti ci presenta questo giovane  italiano che non si imbarazza al cospetto di tanta eccellenza. I suoi colori chiamano. Gli oli di Neirus ti fanno venire voglia di mettere un piede sul davanzale delle sue finestre e poi la testa e le mani e lanciarti senza esitare, come facevamo da piccoli nelle pozzanghere, con gli stivali da pioggia e i sogni di un posto diverso.  E questo posto di colori niditi, fatto di toys di gatti tristi in campane di vetro con topi tatuati sul braccio o bambini in frack che volano con ombrelli ci chiama prepotentemente dal ‘di dentro’ della nostra fantasia, come a persuaderci che basti diventare un anime per trovare l’anima.

Perché non importa quanto cresciamo, anche Alice, dopo, seppe guardare oltre lo specchio.

A noi, basta scegliere una finestra. E una possibilità.

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Macro: in mostra le installazioni pittoriche di Marco Tirelli

Foto di Giuseppe De Bartolomeo

Foto di Giuseppe De Bartolomeo

Marzo 2012

Bisogna entrarci poco a poco nel mondo di Marco Tirelli.

Perché a riempirsi della sua arte, tutta insieme, all’improvviso,  si rischia di non capirla o, peggio, di esserne sopraffatti.  Le sue contorsioni pittoriche, messe lì in tutta la loro linearità, proiettano verso un’essenzialità pericolosa. Come se guardare la semplicità delle linee aprisse dei condotti che portano a certe personali realizzazioni. A una certa intimità con se stessi.

Marco Tirelli, autentico ‘pezzo’ della storia dell’arte contemporanea italiana, espone in questi giorni al Macro, a Testaccio. L’evento, realizzato in collaborazione con il Musée d’Art Moderne de Sant’Étienne Métropole, è stato curato dallo stesso direttore del Macro, Bartolomeo Pietromarchi e tutte le opere sono state realizzate esclusivamente per questa esposizione.  Circa 25 tele di grandi dimensioni –sono alte quasi 3 metri-  sono suddivise in due sale, la prima una vera e propria installazione ambientale, la seconda un continuo dialogo con l’architettura.

Prima che una mostra, è un’opportunità. Anzi, più di una. E’ la possibilità di interagire visivamente con un tassello significativo di una scuola pittorica, quella romana del Pastificio Cerere, e nel contempo quella di approcciarsi a un nuovo modo di guardare all’arte. Tirelli mette in mostra la sua anima, lasciando che la sua interiorità esploda sulle pareti.

Mentre racconta delle sue tele, le tocca, come se averle ‘fatte’ non bastasse a sentirne la proprietà o il merito. Una tecnica particolare quella di Tirelli, acrilico, aerografo, mascherature, sedimentazioni e nessun pennello. Per la sua ispirazione, l’artista romano si affida a un archivio di milioni di immagini, disegni e fotografie,  custodite meticolosamente. Lavora su più opere contemporaneamente, per un motivi tecnici –la semplice necessità di lasciare riposare il colore- e per motivi concettuali –e infatti sulle pareti le opere danno spesso l’effetto visivo di sequenze. Tirelli non nasconde che le sue opere siano una sintesi delle sue conoscenze visive ma vuole che siano anche l’ambizione per una fuga da quello che ci circonda, non una copia del mondo ma un’alternativa. Una sublimazione della realtà, perché come diceva Albert Camus, ‘l’arte contesta il reale, ma non vi si sottrae’. I cromatismi di Tirelli, tutte le tonalità di colore dal bianco al nero, riportano a un gioco di chiaroscuri, di passaggi continui dalla luce all’ombra o viceversa.  Luci e ombre in cui ognuno può scegliere quale parte di sé incontrare.

Marco Tirelli – a cura di Bartolomeo Pietromarchi

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‘AssoLei’ in mostra all’Hotel Art. Una cosa o due da sapere su Adele Ceraudo.

Adele Ceraudo
In esposizione in via Margutta, venti nudi di Adele Ceraudo
(sua anche la figura ritratta nelle opere).

Il nuovo modo di fare arte di Lady Bic.

Tutto quello che dicono di lei è vero.  Adele Ceraudo è pazza. Straordinariamente pazza. Pazza di vita.

E’ pazza anche di se stessa. Anche questo dicono. E non sono originali, è abbastanza immaginabile che una donna che disegna e dipinge solo se stessa sia lievemente narcisista.

Ma c’è di più.
Molto di più.

L’arte può essere specchio e può essere espressione.

La prima è fatta di mani, la seconda di anima. E poi ci sono quelli che con le mani si scavano l’anima. E quello è coraggio misto a sfacciataggine. Oppure è talento.

Curata da ‘Kora Diffusione Culturale’, la mostra ‘AssoLei’ sarà visibile dal 15 al 25 novembre nella prestigiosa cornice dell’Hotel Art di via Margutta. Le opere di Adele Ceraudo non possono essere viste. Devono essere guardate. Scavate dagli occhi. Perché dentro ci sono così tante sfumature di personalità da poter fare più di un solo artista. Ed è un peccato non vederli tutti.

In occasione di questi suoi primi quarant’anni l’artista calabrese espone 20 nudi, sbuccia se stessa facendosi artista e opera d’arte. La chiamano Lady Bic. Perché disegna davvero con la penna Bic. Ma anche in questo c’è approssimazione. La Bic è solo una parte del lavoro della Ceraudo. Una parte preziosa e necessaria, oltre che estremamente particolare.  Farsi fotografare e poi disegnarsi e poi dipingersi. Toccare i bordi di se stessa dal di dentro è solo di chi ha provato il piacere di estirparsi il dolore. Ma il dolore vero. Non l’altro, quello che ci sfiora ogni giorno, quello che si può togliere dalla pelle come i residui di matita da un foglio da disegno. Puntellare con la Bic è un gesto più forte. Segna, a volte graffia, ma non si cancella.

Parte del ricavato della mostra, come sempre accade per le esposizioni della Ceraudo, andrà all’associazione AssoLei, dedita alla tutela dei diritti delle donne.

Oltre che pittrice, Lady Bic è anche illustratrice e attrice. E non solo. È un’incontenibile esplosione di idee. Il suo prossimo progetto “Le affinità elettive. Il vero aspetto di tutti i fenomeni”: 14 immagini-icone della nostra storia dell’arte, rivisitate da 14 fotografi internazionali, da cui nascono 14 disegni a Bic, per 14 quadri. Michelangelo, Leonardo, Caravaggio, Bernini e Canova reinterpretati in chiave contemporanea e soprattutto al femminile. Ed è quasi irriconoscibile Adele Ceraudo ne ‘La Crocifissione’, esposto in anteprima all’Hotel Art. La foto di Matteo Basilè  la ritrae in croce, apparentemente nuda della sua femminilità, ma riconoscibile solo in essa. È così che si fa fotografare. In un momento, uno qualsiasi, senza preparazione, senza trucco. Senza trucchi.

E tutto quello che si dice di lei, in realtà me l’ha raccontato Adele Ceraudo. E pare che si dica, che sia anche un’artista abbastanza presuntuosa. E’ ridondante però. Gli artisti sono –e devono essere- presuntuosi. Se un artista si definisce umile, o è un bugiardo o non è un artista.

E ve la do io una voce –o due- su Adele Ceraudo.

E’ un’artista.
Ed è vera.

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Libri. “Una memoria contemporanea. Dalla collezione di Bianca Attolico” di Ester Coen e Francesca Romana Morelli

L’arte è fatta di pochezze.

L’arte contemporanea,
è fatta di pochezze.

Pochi la sanno fare davvero.
Pochi sanno capirla davvero.

E ancora pochi, possono permettersi di comprarla.

Sono pochezze diverse, che vengono fraintese nelle nostre vite come il politichese o le avvertenze sui medicinali. Tutta questa pochezza è ammirabile al momento, in una serie di collezioni private a cui pochi –appunto- possono accedere. Non che non si sappia dove sono i vari Duchamp, Pollock, Schifano, Kounellis, Chia, de Kooning, Burri o Beecroft, tanto per fare qualche nome, semplicemente non possiamo vederli. Non è che non si sappia come siano fatti, solo che non si possono ammirare dal vivo, tranne che in particolari occasioni.

E’ come dire che non si conosce l’odore del caviale perché non è esattamente l’odore che si sente provenire dalle cucine le cui finestre danno sulla strada, ma si presume che anche il caviale abbia un odore.

Anche l’arte contemporanea è così. A volte, qualcuno, decide di farcene sentire l’odore. L’ultima, in ordine di tempo, è Bianca Attolito che, nel libro “Una memoria contemporanea”, curato da Ester Coen e Francesca Romana Morelli, ci offre un delicato assaggio della sua storia di collezionista. Curatissimo nell’edizione, già la prima di copertina scaraventa in una dimensione concettuale, due buchi blu –dietro i quali si nasconde un’opera di Jonathan Monk- che ci guardano. Come per ribadire, per dirla come Giulio Paolini, che non siamo noi a guardare l’arte ma viceversa.

L’arte che ci guarda, almeno virtualmente, dalle pareti di Bianca Attolito è un viaggio nella sua storia e nel suo gusto, in un intreccio di rapporti personali, scelte e cambiamenti perché, come diceva Picasso, ‘la pittura non è fatta per decorare gli appartamenti ma è uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico’. Quale fosse il nemico di Picasso è difficile immaginarlo, che la signora Attolito abbia combattuto contro ‘quel fondo borghese della mia educazione familiare, che non mi lasciava essere me stessa, affossava ogni mia scelta’, lo scrive lei stessa.

La sua collezione, composta da qualche centinaia di opere, attraversa tutta la seconda metà del secolo scorso e arriva fino ad oggi ma quello che cattura sono i ricordi di cui è infarcito il racconto. Perché dietro ogni opera c’è una storia, un aneddoto. Dalle passeggiate sulla canna della bicicletta di Alberto Ziveri alla visita allo studio di Giacomo Balla a via Oslavia.  Dal legame con Sabina Mirri che le aprì il mondo del Pastificio Cerere, all’amicizia con i ragazzi di quel gruppo, Dessi, Ceccobelli e Nunzio. Non una vita artistica ma una vita insieme all’arte, sempre sul filo dell’avanguardia. E se, come diceva Albert Camus ‘collezionare è essere capaci di vivere il proprio passato’, Bianca Attolito risolve il suo scegliendo un quadro, uno solo tra tanti, ‘La veduta di Roma’ di Mario Mafai. Un piccolo olio su tela, datato 1947. Anche le grandi avventure si possono riassumere in un piccolo ricordo.

In fondo, anche la vita, come l’arte, è fatta di pochezze.

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